Reinventare la precarietà
Nell’Occidente economicamente
depresso la precarietà è tornata ancora una volta la categoria privilegiata
tramite cui descrivere con una certa frequenza qualsiasi fenomeno in atto, che
si parli dell’esistenza degli individui o della condizione sociale generale. A
livello personale così come nella sfera pubblica, nessuno può dirsi esente
dalla possibilità che in qualsiasi momento vengano radicalmente sovvertite la
propria sicurezza personale o le condizioni sociali cui è abituato. Sebbene la
precarietà non sia particolarmente più rappresentativa della vita odierna di
quanto non lo sia già stata in altri momenti della storia o lo sia tuttora in
altri luoghi del mondo (anzi, probabilmente lo è meno), tuttavia esercita una
pesante influenza sulla percezione collettiva. L’esperienza quotidiana della
precarietà sia a livello materiale che ideologico fa di questa condizione una
categoria di cui bisogna farsi carico prima che venga assolutizzata una volta
per tutte in una narrazione funzionale allo stato di sicurezza, una narrazione
cioè che semina terrore.
In questa pubblicazione il CAE analizza la possibilità di re-inventare la precarietà in modo da renderla tatticamente produttiva al fine di constrastare le iniziative distruttive che il capitalismo globale mette in atto ai danni della campagna come della città. In altri termini l’obiettivo del CAE è quello di sfruttare gli aspetti positivi della precarietà in modo da renderla più in sintonia con gli ideali di pace e giustizia.
Il CAE non
si illude certo di fare qui, nell’esiguo spazio di un articolo, l’elenco
completo di tutti i fattori che contribuiscono a creare precarietà in
Occidente, ma ne citerà alcuni, a suo parere, cruciali. In primo luogo,
parliamo dell’evento decisivo, vale a dire la riorganizzazione del lavoro in
una forma che garantisce a diversi soggetti del mondo della produzione tutti i
profitti generati da un proficuo riassetto sociale. L’uso crescente della
tecnologia digitale nell’amministrazione d’impresa e il rafforzamento del
sistema dei trasporti permette al capitale transnazionale di trovare, e
sfruttare, il più basso costo del lavoro e su questa base minima stabilire poi
il metro con cui misurare tutti gli altri lavori non specializzati. Di conseguenza
un bacino di forza lavoro ha un valore aleatorio: una company town a monocultura industriale può diventare da un giorno
all’altro una città fantasma. E, a cascata, tutte le piccole attività
commerciali e società di servizi affondare con essa.
In questa pubblicazione il CAE analizza la possibilità di re-inventare la precarietà in modo da renderla tatticamente produttiva al fine di constrastare le iniziative distruttive che il capitalismo globale mette in atto ai danni della campagna come della città. In altri termini l’obiettivo del CAE è quello di sfruttare gli aspetti positivi della precarietà in modo da renderla più in sintonia con gli ideali di pace e giustizia.
Per chi occupa posizioni dirigenziali la situazione è un po’ migliore. In questo caso si tratta di lavoratori con una competenza specifica (l’equivalente per l’era digitale di quella che un tempo era la capacità tecnica o la professionalità), che non può essere sostituita come si sostituisce un qualsiasi bullone di un macchinario. Oltre alle loro abilità “tecniche”, questa tipologia di lavoratori di solito apporta un diversificato bagaglio di abilità in campo creativo e nella soluzione dei problemi che può essere sfruttato. Ma soprattutto si tratta di lavoratori al cento percento flessibili. Possono lavorare ovunque si trovino, e a qualsiasi ora, per il preciso numero di ore richiesto dal progetto. Per poter operare in questo modo ciascun lavoratore si dota di una propria postazione telematica e sostiene personalmente tutti i costi necessari per la sua formazione e per l’aggiornamento continuo necessario a mantenere il passo con la velocità di cambiamento che caratterizza il mondo digitale. Di conseguenza questo lavoratore, a differenza del lavoratore che risiede nella parte più bassa della piramide lavorativa, ha la possibilità di contrattare quando si offre sul mercato del lavoro. La vita di questi lavoratori è un continuo su e giù. Finché lavorano vivono bene e nell’agio, ma devono sempre essere pronti ad affrontare i momenti di intermezzo tra un lavoro e l’altro. Chi vuole acquisire le conoscenze che permettono di salire al grado superiore della scala lavorativa deve affrontare spese gravose, spesso pari a un mutuo di prima classe, e perciò poi preme per un posto di lavoro stabile. In più, sono lavoratori in continua competizione gli uni con gli altri su scala globale e questo non fa che accentuare la precarietà che già variamente vivono a livello locale.
Un secondo fattore che contribuisce a rendere più precario il nostro tempo è rappresentato dall’amore che il capitale finanziario mostra per il rischio. Dal momento che gli investimenti ad alto tasso di rischio sono il modo migliore per massimizzare il profitto (se vanno in porto), il gioco d’azzardo nel settore finanziario è sempre più diffuso. A causa di questa tendenza, anche i soggetti più benestanti sono in qualche modo soggetti alla generale condizione di precarietà. Se torniamo indietro al tempo di C. Wright Mills, l’élite era una classe tutto sommato piuttosto stabile, composta da unità familiari che si trasmettevano di generazione in generazione la ricchezza accumulata attraverso l’impresa manifatturiera, l’agricoltura o l’industria mineraria. Oggi invece una considerevole fetta dell’élite appartiene al mondo estremamente fluttuante del capitale finanziario. Chi fa parte di questo gruppo e ora sguazza in mezzo a bilioni di dollari, nel giro di un attimo si trova in mano solo qualche milione o addirittura finisce in bancarotta. Quando scoppiano le bolle finanziarie e falliscono quei network economici di dubbia trasparenza ma consentiti dalla legge, non ci perde solo chi ha finanziato l’azzardo ma milioni di piccoli investitori che sono totalmente all’oscuro di quello che sta avvenendo ai loro investimenti. A questo punto non rimane che mettere mano ai depositi bancari che avrebbero dovuto garantire l’agio una volta in pensione e ipotecare la propria casa (i mutui per le case rimangono scoperti), ecco come la realtà della mobilità verso il basso irrompe violentemente nello spazio domestico. Sebbene i profitti non arrivino a toccare gli strati più bassi della piramide lavorativa, le conseguenze materiali del rischio giocato e perso dagli investitori dell’élite invece raggiungono sempre le classi in basso, riversandosi su di esse con la forza di un’onda d’urto.
All’interno
della sfera sociale, non rimane altro da depredare se non il pubblico settore.
Negli Stati Uniti, dove oggi più che mai è necessaria una rete di assistenza
inclusiva, i fondi pubblici sono stati consegnati alle élite in forma di tagli
alle tasse, sussidi per le corporazioni, facilitazioni fiscali e prelievi
autorizzati dalle casse statali. E il capitale non ha altro modo di attingere
ai risparmi della classe lavoratrice se non attraverso la guerra. L’esorbitante
budget militare è un sistema per ridistribuire i fondi a vantaggi dei più
ricchi finanziando l’industria delle armi e dei servizi alla sicurezza (la
privatizzazione dell’esercito).
In
ultimo, il CAE intende rimarcare lo spostamento strutturale che si sta
verificando nelle economie occidentali. Quando si assiste ad una modifica dell’economia tale per cui, al posto
delle industrie, vengono a prevalere i servizi, è naturale che si venga a creare una massa di persone in esubero, che non
trovano collocazione in questo nuovo modello economico. Se mancano le
istituzioni in grado di riqualificare e reintegrare queste persone, è ovvio che
il sottoproletariato, già caratterizzato per sua natura da uno stato di
precarietà permanente, è destinato ad espandersi. I tagli all’educazione dimostrano chiaramente l’assenza
di una volontà politica tesa a migliorare la situazione, e il fatto che molti dei settori produttivi oggi in
espansione non necessitino di un gran numero di manodopera non fa che a peggiorare le cose
Mentre il capitale globale scivola sempre più verso una
profonda crisi strutturale, affannandosi tuttavia a mantenere qualche margine
di profitto, diventare precari (nell’accezione negativa del termine) sta
emergendo come il leit-motiv nell’immaginario comune. Oggi aleggia nell’aria un pesante vento di nostalgia per
la stabilità del passato. Ammettiamo pure che sia possibile tornare agli anni
Cinquanta, ma siamo davvero sicuri di volerlo? Negli U.S.A. il progresso
sociale andava di pari passo con la crescita economica, ma a favore di chi? Le classi più marginali non hanno certo goduto di questo
progressivo miglioramento, figlio del “compromesso di classe” con il capitale, e
comunque, anche chi vi ha partecipato, non l’ha fatto certamente alle
condizioni più favorevoli E molti degli esclusi non godettero affatto dei benefici più
accattivanti. Le strade straripavano di uomini “in giacca e cravatta” che ogni giorno raggiungevano il loro posto
di lavoro garantito sì a vita ma vuoto di soddisfazioni, un ufficio dove a
ciascuno era richiesto di fare il suo dovere e non piantare grane. Davvero
vogliamo far rivivere questo modello conformista di lavoro? Vogliamo rifarci a
un modello di famiglia che oggi appartiene solo a una ridottissima minoranza?
Vogliamo barattare la precarietà con quel profondo stato di alienazione e
marginalizzazione che ha catalizzato le attuali lotte, culturali e sociali, a
favore dell’emancipazione femminile, dei diritti LGBT (lesbiche, gay,
bisessuali e transgender) e di una moltitudine multicolore di minoranze? Potremmo
invece riplasmare la precarietà per farne uno strumento al servizio delle
persone e della riqualificazione della sfera sociale, per arrivare infine ad
eliminarne tutta la valenza negativa che inficia la nostra vita oggi.
Dérive
rivisitata
La Deriva (Dérive) può essere
interpretata come un processo utopico. La sua pratica è caldamente raccomandata
sia per la bellezza dell’esperienza in sé sia per i risultati che può portare.
Colui che pratica la Deriva può affrancarsi da tutte quelle routine cui è soggetto a causa della
struttura normativa e delle dinamiche proprie dell’ambiente urbano. Può
contrastare la pervasività del razionale e lasciare che siano i desideri
inconsci a guidare i suoi passi.
L’azione della Deriva dovrebbe essere improduttiva ed esperita senza
porsi alcun obiettivo pratico, solo in questo modo essa diventa un’avventura.
Chi la pratica, dovrebbe affrontare ambienti a lui estranei e mescolarsi a
persone che vivono ai margini della sua quotidianità. Così facendo, sperimenta
una dimensione di vita completamente svincolato dagli imperativi dello status
quo. La Deriva implica una partecipazione attiva
e impegnata nello spazio reale di prossimità. Niente a che vedere con il
passeggiare, quando ci si limita ad osservare in modo freddo e distaccato la
realtà, o si va semplicemente in giro a caccia di informazioni e notizie. La
Deriva è invece la temporanea dimostrazione di cosa potrebbe voler dire essere-nel-mondo in forma emancipata, se
l’apparato disciplinante dello spettacolo e le illusioni del virtuale non
fossero onnipresenti nelle nostre vite.
Descritta
così, la Deriva sembra talmente desiderabile, piacevole e anche facilmente
accessibile, che non dobbiamo far altro che cominciare a praticarla. Tuttavia
nel processo entra in gioco anche l’idea di precarietà, implicitamente sottesa
sebbene di solito nessuno si soffermi a rilevarla. Chi pratica la Deriva,
infatti, può avere la meravigliosa occasione di scoprire una cultura subalterna
di cui ignorava perfino l’esistenza, ma potrebbe altrettanto facilmente finire
in prigione o venire duramente pestato. Di sicuro, se diamo via al processo o
lo osserviamo attraverso la prospettiva prismatica delle ingiuste relazioni tra
maggioranza e minoranza (di ogni genere), l’incidenza della precarietà si
intensifica. Che effetto farà, agli occhi di un agente incaricato di mantenere
lo status quo, una persona impegnata nella pratica della Deriva? Se l’azione
può in qualche modo rientrare tra le violazioni alle norme della strada, molto
probabilmente ci si ritroverà in prigione. Di sicuro i Situazionisti non erano
così ingenui da pensare che una siffatta condotta potesse avere sempre e
soltanto aspetti positivi. Il racconto dei rischi fisici che hanno corso e del
tempo passato in gattabuia ci fanno capire come loro stessi abbiano
direttamente sperimentato tutti gli aspetti decisamente spiacevoli impliciti
nella scelta di creare e vivere tempi e spazi liberati. Quando si parla della
Deriva come processo utopico, il CAE non afferma certo che sia senza rischi per
l’incolumità fisica e l’autonomia personale. Tuttavia riteniamo sia uno
strumento utile se vogliamo trovare uno spazio di relazione intersoggettivo,
che l’autorità ci nega, dal momento che la Deriva ci suggerisce che una certa
situazione, o addirittura l’intera società, può essere ripensata in modo
diverso da come oggi è. Per questo è un gesto utopico, a cui sempre si
accompagna la precarietà.
Precarietà e pratiche culturali di
resistenza
I Situazionisti non sono stati i
primi attivisti culturali, né saranno gli ultimi, a considerare la precarietà
una fedele compagna di viaggio. Chiunque abbia praticato in ambito culturale
una qualche forma di resistenza nello spazio pubblico ha sviluppato una certa
confidenza con questo binomio. (Tanto per essere chiari, diciamo subito che il
CAE intende per “pubblico” tutto lo spazio che si sviluppa fuori dalle mura
domestiche e non è specificatamente vincolato nell’accesso.) Spesso le autorità
accettano di chiudere un occhio davanti a un’infrazione, dal momento che le
leggi che regolano il comportamento nello spazio pubblico sono state scritte
non tanto per impedire l’attività criminale quanto invece per ostacolare le
azioni di resistenza. Per esempio, quando il CAE ha sostenuto gli studenti
della NYU in una protesta pubblica contro il Museo di Storia Naturale della
città di New York che esponeva una statua equestre di Teddy Roosevelt che
guidava un nativo americano e un afro-americano (ovviamente entrambi a piedi)
verso l’implicito orizzonte del tramonto, prontamente accorsero le guardie di
sicurezza e subito dopo intervenne la polizia. La polizia minacciò di arrestare
i manifestanti per blocco del traffico (a dispetto del fatto che in realtà si
muovevano in continuazione). A chi ribatteva chiedendo conto delle dozzine di
persone ferme sulla scalinata del museo e che, loro sì, con ogni evidenza ne
bloccavano l’accesso, la polizia rispose che quelle persone potevano anche
infrangere la legge ma nei fatti non stavano dando fastidio a nessuno.
Ecco
perché il CAE non distingue, da un punto di vista operativo, un parco da un
centro commerciale. La questione della sicurezza è la stessa in entrambi in
luoghi, così come la domanda di ordine pubblico e la restrizione del diritto di
parola. Purtroppo, quando l’azione politica di resistenza tocca il mondo della
produzione culturale, bisogna mettere in conto una percentuale di rischio più
alta. Esiste una gran varietà di leggi che vengono applicate a diversi livelli
di intensità. Quando bisogna impedire un’azione che dà fastidio alle autorità,
allora ci si appella alle leggi relative a disturbo e perturbamento della
quiete pubblica, condotta intemperante, assemblea non autorizzata o intralcio
di pubblico passaggio. Se bisogna allontanare dalla sfera pubblica qualcuno per
un periodo di tempo più lungo, allora si fanno scattare accuse più pesanti,
come per esempio incitamento alla rivolta, provocazione di una falsa emergenza
pubblica o condotta criminale.
Si tratta di leggi utili all’autorità dal momento che possono essere applicate
in maniera completamente arbitraria. Chiunque può essere arrestato in qualunque
momento, e si può giustificare ogni arresto come contenimento di un’azione
criminale piuttosto che come repressione dell’opposizione e della libera
espressione di una minoranza.
Anche
nel caso i manifestanti godano della protezione istituzionale garantita da un ente
patrocinatore a tutti gli effetti autorizzato e che dovrebbe evitare loro problemi
di tipo legale, ci sono comunque
sempre altre agenzie disciplinatorie pronte a intervenire. In questo caso,
tutti quelli che vogliono mantenere lo status quo - dai politici ai
legislatori, dai gruppi confessionali ai lavoratori sociali – possono farsi
carico di un’operazione disciplinante di regolamentazione. In casi di questo
genere, gli attivisti culturali non hanno da temere denuncie e prigione, ma
potrebbero incorrere in reazioni ben più fastidiose o pagarla anche più cara.
La gestione del diritto di espressione è un fenomeno trasversale che permea
tutti gli aspetti della vita quotidiana. Con il progressivo aggravarsi della
crisi provocata dal crollo strutturale del capitalismo globale, crescerà di
pari passo anche la repressione a danno di chi esprime dissenso. In queste
condizioni, la familiarità che il lavoratore culturale intrattiene con la
precarietà è destinata a rafforzarsi.
Gli
attivisti culturali operano sempre a braccetto con la precarietà. Da una parte,
il lavoro culturale creativo di chi opera in questo genere di produzione non è
di solito ricompensato profumatamente; però la povertà economica è spesso
percepita come il naturale contraltare di una vita culturalmente ricca, diversa
e più felice. D’altra parte, se aumenta la repressione delle iniziative di
attivismo culturale, la precarietà si somma alle difficoltà economiche finendo
per incidere in modo sempre più pesante sulla vita sociale di chi produce
controcultura. Non abbiamo altra scelta che accettarla come un’amica, cercando
di capire in che modo potremmo meglio sfruttarla per le nostre battaglie contro
l’oppressione e l’ingiustizia sociale. A titolo di testimonianza personale,
ricordiamo che nel corso degli anni il CAE si è scontrato quasi con ogni agenzia
disciplinatoria possibile immaginabile, eppure ancora non abbiamo rinunciato a
considerare la precarietà nostra compagna di lotta. Le tante esperienze belle e
arricchenti superano di gran lunga i momenti più brutti.
Precarietà ecologica
Forse i lavoratori culturali vivono
oggi decisamente più che in passato a stretto contatto con la precarietà. La vita degli uomini e di molte altre specie è
accomunata dalla medesima condizione di precarietà ecologica, provocata dalla
deliberata bancarotta etica del neoliberismo. La scelta di improntare tutte le
attività economiche sulla base del mero guadagno ha messo a rischio l’ambiente
come mai prima d’ora. Non soltanto il capitale
cerca di evitare qualsiasi relazione con le questioni inerenti alla
riproduzione del sociale, salvo assicurarsi che non si esaurisca mai il bacino
della forza-lavoro, ma non vuole avere niente a che fare neppure con la
salvaguardia della vita in nessuna forma. La biosfera viene intesa solo e
soltanto come una risorsa da utilizzare fino ad esaurimento.
Per amore
di onestà, dobbiamo ammettere che i primi capitalisti non potevano certo
prevedere che l’attuale economia di scala avrebbe cambiato il modo di percepire
la Terra, trasformando una riserva apparentemente inesauribile di risorse
naturali in un serbatoio di cui ben presto vedremo il fondo. Ma oggi che tale
cambiamento è ormai assodato, perché i capitalisti non desistono dalla strada
intrapresa, a tutti gli effetti ecocida? Non lo fanno perché ritengono che
oltre la sfera individuale non esista altro che il proprio tornaconto
personale. Qualsiasi cosa (inclusi gli esseri umani) esiste solo per poter
essere utilizzata ai fini dell’ottenimento di potere, benessere e prestigio
personale. Fino a quando gli interessi egoistici del singolo individuo non
vengono danneggiati in questo processo, allora il processo è buono. Ogni morte
che tocchi altrui e/o ogni devastazione causata dalle pratiche economiche non è
altro che un sacrificio necessario se si vuole la gloria immediata del guadagno
economico. Dal momento che i fautori del neoliberismo concepiscono l’interesse
del singolo come qualcosa di finito e la morte di un individuo rappresenta per
loro la fine dell’attività economica, ne consegue che oltre questa fine non si
sentono in alcun modo impegnati con il mondo materiale. La futura estinzione
degli esseri umani e delle altre specie non rientra nel loro business plan.
L’idea che il tempo sia un orizzonte infinito non gli appartiene, né si sentono
parte della biosfera come insieme complesso. Oggi stanno commettendo a carico
dell’intera ecosfera il più grave crimine della loro bicentenaria storia. Da
una prospettiva ecologica, i neoliberisti – con la loro convinzione che il peso
dei singoli egoismi sia maggiore di quello dell’universo – rappresentano un
vero e proprio culto di morte.
Il
predominio di questa ideologia di perverso individualismo, dove si crede che le
peggiori qualità umane possano trasformare il mondo in un posto migliore per
tutti, giustifica una dinamica ecologica che oggi danneggia tutti a causa della
distruzione dell’ambiente. Principali responsabili ne sono gli inquinanti non
biodegradabili e impossibili da bonificare. Il più virulento attacco
all’ecosistema viene da qui. (Peccheremmo di
negligenza se qui non ricordassimo che il secondo posto in questa gara alla
devastazione ambientale se lo aggiudicano l’industria del mattone e quella
estrattiva). Secondo la prospettiva neoliberista il costo degli inquinati
andrebbe “esternalizzato” (cioè pagato da altri e non dalla propria
corporazione, il che di solito significa dalla società nel suo insieme). Questo
obiettivo viene raggiunto quasi sempre, tanto
che poi porre rimedio all’inquinamento ambientale oltrepassa di gran lunga la
capacità economica dei mercati
mondiali. Che si parli di cambiamento climatico, calo della biodiversità
(per esempio, estinzioni di massa), peggioramento della qualità dell’aria e
dell’acqua, o di emergenze sanitarie provocate da agenti inquinanti presenti
nell’ambiente, il prezzo da pagare per riparare ai danni che la Terra non è in
grado di ammortizzare è incalcolabile.
Nonostante
in tutto il mondo il neoliberalismo sia riuscito a inquinare senza soffrire
alcuna conseguenza legale, non cessa di adoprarsi senza requie perché si
alleggeriscano ancor di più le leggi di protezione ambientale. Di norma, il
neoliberismo non ama che le proprie attività siano regolamentate, mentre trova
ben fatto che tutto il resto lo sia, specie se si tratta di forze del mercato
come i sindacati, aziende che potrebbero diventare potenziali concorrenti o attivisti
culturali che si pongono all’opposizione. Ne consegue che compito del governo è
approvare leggi che proteggono la proprietà e mantengono “l’ordine pubblico”,
nonché farle applicare alla lettera.
Quanti
hanno a cuore l’integrità ambientale hanno vinto alcune battaglie contro il
movimento per la deregolamentazione, che pure poteva contare su ingenti poteri
economici e una classe politica favorevole (e corrotta). In questo nostro
articolo ci occuperemo in particolare della protezione delle specie e degli
habitat a rischio in così tanti paesi. Negli Stati Uniti d’America, nel 1973 il
presidente Nixon ratificò la trasformazione dell’Endangered Species Act in
legge. Naturalmente era stato costretto a questo passo dagli ambientalisti e da
una variegata coalizione di cittadini preoccupati, ma anche da alcuni
inaspettati alleati dell’ala conservatrice spinti dal riaccendersi della paura
della sovrappopolazione e delle sue possibili conseguenze. Il capitolo di legge
in questione ha riconosciuto stato legale alle specie prossime all’estinzione,
uno status che ha permesso agli avvocati del movimento ambientalista di
costringere a un passo indietro quanti erano già bell’e pronti a uccidere
qualunque essere vivente si trovasse sulla via del profitto.
Nuove Alleanze
Avendo a che fare con specie che
sono contemporaneamente a rischio e protette, potemmo trovarci per le mani un
terreno d’azione dove la forza della precarietà combinata con il potere della
legge può lavorare a favore di un ambiente più sano e fiorente. Il CAE propone
di mettere insieme la condizione di precarietà vissuta dalle piante a rischio
di estinzione con quella degli
spazi di socialità e di natura minacciati da più fronti così da rafforzare e
proteggere entrambi. In molti paesi le specie vegetali a rischio godono di una
speciale protezione legale. O, se non altro, suscitano la simpatia della gente
e possono essere utilizzati dai protezionisti come deterrente morale. Queste
piante, anche se deboli come specie, hanno di per sé un grande forza vitale. Se
si riuscisse a convogliare questa loro forza individuale sugli spazi umani e
non umani minacciati dalle varie entità del capitalismo che, per ottenere
profitto e/o di potere, si riappropriano di territori che la gente non riesce
più a difendere, allora forse si potrebbe dare vita a una nuova simbiosi
socio-politica tra piante e persone. Le piante crescerebbero di numero man mano
che la gente si adoperasse a coltivarle a scopo di autodifesa, attenuando il fenomeno
del declino che coinvolge le specie vegetali, mentre a loro volta gli spazi
potrebbero sfruttare la protezione legale accordata alle piante per opporsi con
più forza ai violenti, aggressivi tentativi di appropriazione. Questo progetto secondo noi potrebbe
essere portato avanti a favore di tutti quegli spazi sui quali pende la
minaccia di un irragionevole sviluppo: community
gardens, spazi in condivisione, aree rurali a rischio edificazione, luoghi occupati
abusivamente in generale, e tutti gli spazi minacciati dall’industria
estrattiva, inclusi i territori agricoli, tutti i luoghi incolti e selvatici, o
perfino le falde acquifere suburbane.
Basta
guardare cosa è successo negli U.S.A. negli ultimi quarant’anni per capire che
la scelta di appellarsi all’ESA (Endangered Species Act/Legge a tutela delle
specie a rischio) ha prodotto alcuni
significativi risultati. Nel 1990, la Strix occidentalis caurina (un allocco caratteristico del Nord
America) fu lo strumento che permise di porre in salvo le antiche foreste, suo habitat
naturale, che rischiavano l’estinzione per l’eccessivo prelievo ligneo. Milioni
di acri nel nord ovest del paese sono stati preservati, sebbene nei vent’anni a
seguire lo scontro tra protezionisti e l’industria del legname non sia mai
cessato. L’area interessata è stata in gran parte messa in salvo, ma l’industria
del legname ha continuato a reclamare i suoi diritti su di essa in tribunale,
con azioni di pressione politica e anche intervenendo nel dibattito ecologico
(sostenendo che l’estinzione della Strix
o.c. era dovuta non tanto alla
scomparsa del suo habitat naturale ma all’intrusione massiccia della
concorrente Strix varia, (l’Alocco
barrato).Nel 2006 divampò lo scontro tra protezionisti e industria estrattiva a causa dei piani di sviluppo delle Grandi Pianure in Nebraska e South Dakota. Il furetto dai piedi neri (Mustela nigripes), che si credeva ormai estinto quando invece fu di nuovo avvistato nel 1982, diventò il simbolo della biodiversità nelle Grandi Pianure minacciata non solo dalla massiccia opera di estrazione ma anche da una gestione pubblica corrotta. L’immissione sul territorio di nuovi esemplari di furetto permise di estendere l’area protetta, mettendola al riparo da speculatori e cacciatori.
Eubranchipus vernalis, poi, è la specie utilizzata per impedire la proliferazione urbana a Riverside, California. Sebbene non siano animali accattivanti come la piccola civetta maculata o il furetto dai piedi neri, questi piccoli crostacei d’acqua dolce si trovavano a vivere in un habitat gravemente compromesso dall’industria della costruzione che procedeva a ingenti bonifiche delle loro aree di riproduzione primaverile. Alla fine vinsero i costruttori, ma alcuni degli habitat dell’Eubranchipus vernalis furono comunque preservati e non eliminati come previsto dal piano originale. Dalla verifica sul campo possiamo dedurre che è questo il genere di risultato che ha le maggiori probabilità di verificarsi. I grandi progetti di sviluppo possono essere rallentati o limitati, ma raramente si riesce a fermarli del tutto.
Prendiamo uno dei primi classici casi verificatisi negli U.S.A., quello che ha contrapposto il Percina tanasi e il piano di sviluppo della diga Tellico in Tennessee. Il biologo David Etnier aveva scoperto l’esistenza di questa rara specie di persico nel 1973, e questo aveva permesso agli ambientalisti di condurre un’azione legale contro la TVA (Tennessee Valley Authority) sulla base del fatto che la diga avrebbe distrutto il già ristretto habitat che permetteva l’esistenza di una specie a rischio. Questa azione, che proseguiva quella già avviata sulla base del National Environmental Policy Act, fu portata avanti dagli attivisti che invocarono l’ESA. La Corte Suprema accolse finalmente il caso nel 1978 e si espresse a favore delle ragioni degli ambientalisti. I sostenitori della Tellico, allora, cominciarono a darsi da fare a Washington D.C. per ottenere dal Congresso una dispensa che ponesse la diga al di fuori del raggio di azione delle leggi di protezione ambientale. Attraverso un’operazione di lobbying, ottennero un’esenzione in una clausola contenuta nel progetto di legge sull’acqua e l’energia. Poi, furono proposti alcuni emendamenti che limitassero il campo d’azione dell’ESA. La diga fu completata nel 1979. In sostanza, dobbiamo prendere atto che questo modello di lotta è imperfetto, però dà in mano agli attivisti una carta da giocare al tavolo della contrattazione. Nella maggioranza dei casi, le voci del mondo ambientalista sono riuscite soltanto a ostacolare e rallentare il processo di distruzione. La TVA ancora oggi si dichiara orgogliosa del fatto che mai nessuna azione ambientalista è riuscita a far recedere uno dei suoi progetti. Tuttavia, i gruppi di pressione che cercano di dar voce agli interessi delle specie a rischio, o dei loro habitat, hanno costretto questi signori a negoziati che hanno certamente influito sui loro piani di espansione. Nel caso del Percina tanasi, mentre procedeva l’erosione del loro habitat, ci si adoperò anche per traslocare il maggior numero possibile di esemplari in acque che avessero caratteristiche simili a quelle loro abituali e che potessero dunque ospitarli. Nel 1984 il Percina t. fu ricatalogato da specie a rischio a specie in via di estinzione.
Se gli animali a rischio di estinzione riescono a motivare l’azione degli ambientalisti in modo così forte, perché allora non si possono spostare tali specie in ambienti a loro compatibili che siano anch’essi a rischio di estinzione? Prima di tutto perché gli animali si muovono. Non stanno dove decidi di metterli e, una volta liberati in un nuovo territorio, potrebbe essere poi difficile rintracciarli, specie se parliamo dell’introduzione di un piccolo numero di esemplari. Se parliamo di un’area rurale, la protezione legale scatta solo e soltanto se siamo in grado di dimostrare che la specie a rischio è minacciata nell’immediato da una ben specifica attività compiuta da un soggetto ben individuato. In poche parole, deve essere vicino al collasso. Come il CAE ha dimostrato negli esempi qui sopra, raramente scatta una vera e propria moratoria, però le attività inquinanti o distruttive possono essere allontanate da alcuni luoghi circoscritti. Soltanto il mondo vegetale, per sua natura sedentario, ci permette di tentare questa via. D’altra parte, in riferimento alle aree urbane, non abbiamo a disposizione altra possibilità se non l’utilizzo delle piante, dal momento che le città non offrono un ambiente ospitale per gli animali. Anche gli alberi potrebbero fare al caso nostro. Immaginiamoci il peggiore degli scenari possibili, immaginiamo cioè che in una data situazione i soldi delle industrie e la volontà politica costituiscano una presenza schiacciante, oppure che la legislazione sia stata palesemente scritta per favorire gli interessi dell’industria. Ne abbiamo visti alcuni casi appena sopra. Per quanto riguarda l’ultimo aspetto, se guardiamo per esempio all’Italia, la legislazione di protezione ambientale opera un distinguo tra piante coltivate e selvatiche quando si tratta di specie a rischio. Per quanto rare possano essere, le piante coltivate non godono di alcuna protezione legale. Di conseguenza, il progetto del CAE sarebbe difficilmente attuabile. Ma proprio per questo l’Italia rappresenta una perfetta occasione di testarlo. La prima sfida è infatti quella di capire cosa significa coltivato rispetto a selvatico, specie se parliamo di qualcosa che cresce in un spazio incolto. Se un’orchidea selvatica che cresce in una serra può facilmente essere classificata come una pianta coltivata, diventa difficile definire la stessa pianta se cresce su un pezzo di terra di nessuno.
Ammettiamo che questo nostro test fallisca, costringendoci a una seconda linea di difesa: potremmo trasformare questa azione in una fruttuosa campagna di informazione? Sebbene chi cerca di realizzare profitti non si vergogni affatto del suo operato né soffra di sensi di colpa, è però vero che di solito ha un’immagine pubblica che desidera preservare. Scegliendo le specie più adatte allo scopo, si riuscirà a catturare l’immaginazione del pubblico e indirizzarla a sostegno del protezionismo. Aumentare il numero delle persone che si lascia coinvolgere dal progetto è sempre una necessità se si vuole costringere al tavolo della contrattazione il promotore di un’impresa. Naturalmente, questo significa scegliere con grande cura le piante che andranno trapiantate in un ambiente a rischio di cancellazione. Scegliere una specie sulla base del suo valore ambientale non è una buona tattica. Molte erbe e molti alberi importantissimi per la sopravvivenza dell’ecosistema hanno bisogno di essere salvaguardati, ma se vogliamo costruire un nuovo patto dovremo ricorrere a un criterio più tradizionale, quello del valore estetico. Si tratta, e ce ne dispiace, di un lato poco edificante del processo ma di una chiarezza lampante: se una pianta non riesce a reggere il paragone con le nobili creature che stanno in cima alla catena alimentare — maestosi predatori, o teneri mammiferi — farà la fine di quella vasta, non rappresentata, maggioranza di esseri viventi che vanno incontro all’estinzione a causa di qualche caratteristica repulsiva o di un volto che lascia indifferenti. Per questo nostro lavoro solo una strada è praticabile: bei fiori selvatici, grandi distese di fiori selvatici. L’immagine di una fila di bulldozer che avanza schiacciando sotto di sé una distesa di fiori, e non semplici fiori qualunque ma esemplari di piante a rischio di estinzione, può avere un effetto drammatico capace di smuovere gli animi, per la nostra parte, e rappresentare una grossa pietra di inciampo nel campo delle relazioni pubbliche, per i nostri interlocutori.
Il CAE deve purtroppo ammettere che probabilmente questa tattica non può da sola produrre un impatto su larga scala. I suoi risultati migliori li dà se dispiegata all’interno di un sistema composito di resistenza. Quando è già attiva una mobilitazione pubblica a favore della salvaguardia di un ambiente selvaggio o di un parco naturale, o contro l’avvelenamento di un habitat a causa degli scarichi tossici, allora questa tattica può dare un contributo estremamente utile alla causa.
La nuova alleanza tra gli uomini e le piante che condividono la stessa condizione di precarietà sembra al CAE un sistema funzionale di condividere interessi per sviluppare forza politica; rimangono tuttavia diverse questioni di ordine logistico. In fin dei conti, si tratta di azioni per le quali sono necessarie molte piante e questo significa che bisogna attivare ancora un altro patto di alleanza, quello tra uomini. Una delle divisioni che tradizionalmente si sono dimostrate controproducenti per il movimento ecologista è la separazione tra chi si preoccupa di preservare la campagna e chi lotta per il verde in città. Anche se corre grande empatia tra i due gruppi, metterli insieme è, all’atto pratico, un affare difficile. Non che manchi il desiderio di farlo, mancano le infrastrutture, perciò le persone sono costrette ad agire localmente nello spazio reale a loro disposizione. Per quanto lo spazio virtuale aiuti a organizzare i gruppi e a trovare i finanziamenti, alla fine serve la condivisione di uno spazio reale per risolvere i problemi dello spazio reale. Perché si realizzi l’alleanza pianta-uomo, devono prima riuscire ad allearsi gli ambientalisti che si occupano di campagna e quelli di città, e anche tutti i cittadini sensibili a questi temi. Il nuovo food movement ha dimostrato che l’agricoltura su piccola scala e gli abitanti delle città possono allearsi per dare vita a un nuovo tipo di mercato basato sulla vendita diretta dei prodotti locali. Perché non adottare una struttura siffatta per generare nuove modalità di azione politica ambientale, in cui gli attivisti che operano in zone rurali gestirebbero la produzione delle piante mentre quelli di città si occuperebbero di raccogliere i fondi e organizzare le azioni di distribuzione e le campagne di allerta media quando necessario?
In Italia
Nell’ottobre 2011 il CAE si è recato
a Torino, in Italia, per condurre un workshop sulle “nuove alleanze” in
collaborazione con il PAV / Parco Arte Vivente diretto da Piero Gilardi. Come dice il suo nome, si tratta di
un’istituzione che svolge un’attività culturale che implica un costante impegno
in senso ecologista e nell’ottica della resilienza. Con la sua programmazione,
l’architettura e il luogo stesso su cui è sorta – una zona industriale dismessa
– il PAV segnala visivamente un cambiamento nel modo in cui l’essere umano si
relaziona con l’ambiente e si staglia in netto contrasto con gli edifici
moderni e l’impianto urbano che lo circondano. Non c’è bisogno di dire che il
CAE non avrebbe potuto trovare un partner migliore con cui dare avvio a questo
progetto.
Il
workshop era strutturato in quattro sessioni che servivano a predisporre il
terreno all’azione. Al CAE spettava il compito di delineare il progetto e le
sue variabili rispetto a cosa si intendeva per nuove alleanze. Sarebbe poi
stata la volta di un agronomo esperto in legislazione ambientale (Daniele
Fazio) che avrebbe presentato le leggi dedicate alle specie a rischio a livello
nazionale, regionale e locale. Poi un botanico e giardiniere (Filippo Alossa) ci
avrebbe introdotto al mondo delle piante a rischio di estinzione, mostrandoci
come coltivarle. Il workshop avrebbe infine dovuto concludersi con una serie di
esplorazioni al fine di individuare i luoghi più adatti alla piantumazione di
queste piante.
Arrivati
a Torino, Orietta Brombin, responsabile delle
Attività educative e formative del PAV e curatrice
del workshop, aveva riunito un interessante gruppo di partecipanti, tra cui
l’esperto in legislazione e l’agronomo di cui tanto avevamo bisogno. Prima del
nostro arrivo questo gruppo aveva già esplorato alcuni possibili luoghi di
intervento, perciò a noi non rimaneva che approfondire le altre sezioni del
workshop. L’analisi della legislazione italiana ci ha dato una forte delusione
dal momento che, in materia di specie a rischio, distingue tra piante coltivate
e piante selvatiche e non protegge quelle coltivate indipendentemente da quanto
siano rare. Questo non mette certo a rischio un’eventuale campagna
d’informazione, ma presenta comunque alcune zone grigie relativamente a come si
potrebbe accertare che una pianta è coltivata se la vediamo crescere in un
campo incolto. D’altra parte però, coltivare le piante e acquisire i mezzi
necessari a farne crescere in gran quantità sembrava un’operazione attuabile
senza difficoltà. Con altrettanto agio siamo riusciti a scegliere un fiore (Catananche caerulea), sebbene la scelta
sia stata determinata soprattutto dalla facile reperibilità sul mercato dei
suoi semi. Naturalmente, non tutti sono autorizzati a raccogliere i semi di
piante selvatiche a rischio. Per nostra fortuna però molti semi di piante a
rischio sono disponibili sul mercato. Infine, abbiamo capito che il progetto
andava esteso, accogliendo le raccomandazioni di Alossa in merito al rispetto
del ciclo naturale di crescita in un ambiente naturale ed evitando invece le
condizioni artificiali di una crescita in serra, perché le piante cresciute in
serra sarebbero state troppo delicate per resistere a condizioni ambientali
naturali. Alossa ci ha suggerito di cominciare a seminare le piante in tarda
primavera e di trapiantarle in loco alla fine dell’estate.
Mentre
questo processo si svolge passo dopo passo in Italia, noi speriamo di lanciare
un’azione parallela nello Stato di New York al fine di contribuire alla
battaglia in atto contro la fratturazione idraulica causata dall’industria
estrattiva. In questo momento, il CAE immagina che l’azione potrebbe avere una
maggiore ricaduta, specie in termini mediatici, negli Stati Uniti.
Inversione / Capovolgimento
Nella Dialettica dell’Illuminismo, Horkheimer e Adorno lamentano la
regressione politica e culturale della ragione in un semplice meccanismo che
favorisce una serie di tendenze autoritarie e, viceversa, il fallimento
dell’Illuminismo nel portare a pieno compimento i suoi obiettivi, cioè il
portato delle idee di libertà, uguaglianza e progresso. Mano a mano che la
ragione perde terreno, questi ideali cominciano a cambiare segno e alla fine
rischiano di trasformarsi nel proprio opposto. L’Illuminismo aveva promesso la
liberazione dalla miseria eppure, indipendentemente da quanto si produce, la
povertà è ancora una condizione reale. Scienza e tecnologia, che sembravano
portare a una pace e a un progresso infiniti, hanno prodotto invece quelle
capacità distruttive in grado di mettere a rischio l’esistenza stessa della
vita umana; e la razionalità, che avrebbe dovuto organizzare la vita umana in
modo che i benefici fossero equamente divisi tra tutti, si è trasformata in uno
strumento capace di ideare campi della morte incredibilmente efficienti per lo
sterminio dell’Altro. Anche la relazione con la Natura si è pervertita dal
momento che la si è assimilata all’Altro per eccellenza e come tale deve essere
sfruttata fino in fondo ed eliminata. Le relazioni cooperative o simbiotiche
con la Terra sono state eliminate a favore delle relazioni di dominio.
Questa
idea riecheggia in quella che Ivan Illych chiama la diseconomia specifica.
Secondo Illych le istituzioni all’interno del mondo capitalistico tendono nel
tempo a invertire la propria direzione di marcia, in quanto continuano ad
assorbire la corruzione insita nel capitalismo. Per esempio, l’idea di
educazione pubblica ha una fortissima capacità di attrazione: garantire scuole
e università gratuite quale segno tangibile di questo ideale sembra un
incredibile beneficio per la democrazia e l’industria, dal momento che queste
istituzioni contribuiscono a educare le persone a vivere in maniera più
critica, riflessiva e creativa. In realtà esse hanno finito per diventare il
proprio esatto opposto. Sono infatti diventate spazi in cui l’ideologia
dominante replica se stessa, e dove la creatività è sottovalutata se non
addirittura scoraggiata. Dal momento che gli studenti vengono preparati a
diventare burocrati e tecnocrati al servizio dell’industria, li si educa a
sopportare lunghe ore di puro tedio da trascorrere immobili al proprio posto e
con gli occhi fissi a un computer per memorizzare i simboli e la lingua del
libero mercato. Invece di nutrire la loro intelligenza, si pensa a rendere gli
studenti sempre più incapaci di capire, finché tutti i più diversi sistemi di
conoscenza vengono ridotti alla mera categoria dell’impresa. Forse la
più recente incarnazione di questa idea è contenuta nel principio del
“capovolgimento immanente” enunciato da Jean Baudrillard. La caratteristica
centrale di questa interpretazione è lo slittamento dal dominio dell’ordine
materiale delle cose al regno della virtualità. Potere, piacere e seduzione non
appartengono più al piano del mondo materiale. Quella casa degli specchi che è
il mondo virtuale, dove il significato non è più strettamente legato a un
referente, diventa il centro attorno cui gira la vita stessa. In questa
tecnosfera, il più alto grado di illusione produce il più alto grado di valore
e si aggiudica il massimo encomio. Sebbene
tutte queste nozioni tendano ad assumere una traiettoria negativa, allo stesso
tempo indicano che esiste la possibilità di innescare un cambiamento enorme.
Data per certa la possibilità di un cambiamento radicale e considerato il fatto
che noi adesso stiamo ormai raschiando il fondo del barile del libero mercato,
perché mai il prossimo capovolgimento non potrebbe essere positivo?
Si potrebbe sostituire la triade uomo/fucile/carro armato con la meno
gerarchica uomo/mattone /barricata Secondo
il CAE non c’è ragione per cui non si possa, impegnandosi a fondo nella lotta,
tornare ad essere creature dotate di intelligenza e creatività, e insieme
invertire il processo di precarietà in una forza positiva e costruttiva opposta
alla generale condizione odierna.
CAE/Critical Art Ensemble:
Steve Kurtz, Lucia Sommer, Steven
Barnes
Partecipanti al workshop:
Orietta Brombin, Emanuela Romano,
Valentina Salati, Francesca Doro, Maria Chiara Monaldi, Andrea Piras, Pedro
Caetano, Vittoria Iozzo, Filippo Alossa, Rossana Raballo, Raffaella Gallo,
Claudia Botta, Sylvia Mazzoccoli, Iacopo Seri, Nunzio Cirulli, Stefano
Lattanzio, Setsuko Kibe, Daniele Fazio, Giovanna Bonito, Elisabetta Palaia,
Andrea De Taddeo, Piero Gilardi e Giuliana Ponti.
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Didascalie
20 Parco Arte Vivente.
39 Partecipanti al workshop.
51 Valutazione del potenziale estetico di diverse piante
a rischio di estinzione.
68 L’esperto di legislazione ambientale Daniele Fazio illustra
le leggi di protezione ambientale nazionali e provinciali.
87 e 81 I partecipanti al workshop discutono quali specie
vegetali tra quelle a rischio debba essere impiegata nell’azione.
97 Il botanico e vivaista Filippo Alossa illustra le caratteristiche di alcune piante a
rischio al fine di scegliere quelle più adatte al progetto.
157 I partecipanti al workshop imparano come si prepara
un suolo per la semina.
171 Preparare i semi per la germinazione.
285-6 I partecipanti al workshop imparano come si
trapiantano esemplari specie a rischio.
Reati veniali (1992): un membro del CAE in flagranza di
reato: si dà il caso che un adulto sorpreso a giocare come un bambino in uno
spazio pubblico rischi l’arresto per disturbo della quiete pubblica.
Reati gravi (2004): la casa di un membro del CAE viene
perquisita dallo FBI e dell’ATF* . L’indagato è sospettato di
bioterrorismo, ma i capi d’accusa a lui imputati sono frode postale ed
elettronica. Quattro anni più tardi tutte le accuse sono state archiviate.
* Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and
Explosives, agenzia governativa statunitense che interviene nei casi di
violazione che coinvolgono traffico illegale e altri reati collegati all’abuso
di alcool, tabacco, armi da fuoco ed esplosivi.
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