Critical Art Ensemble: riflessioni teoriche

Reinventare la precarietà

Nell’Occidente economicamente depresso la precarietà è tornata ancora una volta la categoria privilegiata tramite cui descrivere con una certa frequenza qualsiasi fenomeno in atto, che si parli dell’esistenza degli individui o della condizione sociale generale. A livello personale così come nella sfera pubblica, nessuno può dirsi esente dalla possibilità che in qualsiasi momento vengano radicalmente sovvertite la propria sicurezza personale o le condizioni sociali cui è abituato. Sebbene la precarietà non sia particolarmente più rappresentativa della vita odierna di quanto non lo sia già stata in altri momenti della storia o lo sia tuttora in altri luoghi del mondo (anzi, probabilmente lo è meno), tuttavia esercita una pesante influenza sulla percezione collettiva. L’esperienza quotidiana della precarietà sia a livello materiale che ideologico fa di questa condizione una categoria di cui bisogna farsi carico prima che venga assolutizzata una volta per tutte in una narrazione funzionale allo stato di sicurezza, una narrazione cioè che semina terrore.
In questa pubblicazione il CAE analizza la possibilità di re-inventare la precarietà in modo da renderla tatticamente produttiva al fine di constrastare le iniziative distruttive che il capitalismo globale mette in atto ai danni della campagna come della città. In altri termini l’obiettivo del CAE è quello di sfruttare gli aspetti positivi della precarietà in modo da renderla più in sintonia con gli ideali di pace e giustizia.
Il CAE non si illude certo di fare qui, nell’esiguo spazio di un articolo, l’elenco completo di tutti i fattori che contribuiscono a creare precarietà in Occidente, ma ne citerà alcuni, a suo parere, cruciali. In primo luogo, parliamo dell’evento decisivo, vale a dire la riorganizzazione del lavoro in una forma che garantisce a diversi soggetti del mondo della produzione tutti i profitti generati da un proficuo riassetto sociale. L’uso crescente della tecnologia digitale nell’amministrazione d’impresa e il rafforzamento del sistema dei trasporti permette al capitale transnazionale di trovare, e sfruttare, il più basso costo del lavoro e su questa base minima stabilire poi il metro con cui misurare tutti gli altri lavori non specializzati. Di conseguenza un bacino di forza lavoro ha un valore aleatorio: una company town a monocultura industriale può diventare da un giorno all’altro una città fantasma. E, a cascata, tutte le piccole attività commerciali e società di servizi affondare con essa.

Per chi occupa posizioni dirigenziali la situazione è un po’ migliore. In questo caso si tratta di lavoratori con una competenza specifica (l’equivalente per l’era digitale di quella che un tempo era la capacità tecnica o la professionalità), che non può essere sostituita come si sostituisce un qualsiasi bullone di un macchinario. Oltre alle loro abilità “tecniche”, questa tipologia di lavoratori di solito apporta un diversificato bagaglio di abilità in campo creativo e nella soluzione dei problemi che può essere sfruttato. Ma soprattutto si tratta di lavoratori al cento percento flessibili. Possono lavorare ovunque si trovino, e a qualsiasi ora, per il preciso numero di ore richiesto dal progetto. Per poter operare in questo modo ciascun lavoratore si dota di una propria postazione telematica e sostiene personalmente tutti i costi necessari per la sua formazione e per l’aggiornamento continuo necessario a mantenere il passo con la velocità di cambiamento che caratterizza il mondo digitale. Di conseguenza questo lavoratore, a differenza del lavoratore che risiede nella parte più bassa della piramide lavorativa, ha la possibilità di contrattare quando si offre sul mercato del lavoro. La vita di questi lavoratori è un continuo su e giù. Finché lavorano vivono bene e nell’agio, ma devono sempre essere pronti ad affrontare i momenti di intermezzo tra un lavoro e l’altro. Chi vuole acquisire le conoscenze che permettono di salire al grado superiore della scala lavorativa deve affrontare spese gravose, spesso pari a un mutuo di prima classe, e perciò poi preme per un posto di lavoro stabile. In più, sono lavoratori in continua competizione gli uni con gli altri su scala globale e questo non fa che accentuare la precarietà che già variamente vivono a livello locale.

Un secondo fattore che contribuisce a rendere più precario il nostro tempo è rappresentato dall’amore che il capitale finanziario mostra per il rischio.  Dal momento che gli investimenti ad alto tasso di rischio sono il modo migliore per massimizzare il profitto (se vanno in porto), il gioco d’azzardo nel settore finanziario è sempre più diffuso. A causa di questa tendenza, anche i soggetti più benestanti sono in qualche modo soggetti alla generale condizione di precarietà. Se torniamo indietro al tempo di C. Wright Mills, l’élite era una classe tutto sommato piuttosto stabile, composta da unità familiari che si trasmettevano di generazione in generazione la ricchezza accumulata attraverso l’impresa manifatturiera, l’agricoltura o l’industria mineraria. Oggi invece una considerevole fetta dell’élite appartiene al mondo estremamente fluttuante del capitale finanziario. Chi fa parte di questo gruppo e ora sguazza in mezzo a bilioni di dollari, nel giro di un attimo si trova in mano solo qualche milione o addirittura finisce in bancarotta. Quando scoppiano le bolle finanziarie e falliscono quei network economici di dubbia trasparenza ma consentiti dalla legge, non ci perde solo chi ha finanziato l’azzardo ma milioni di piccoli investitori che sono totalmente all’oscuro di quello che sta avvenendo ai loro investimenti. A questo punto non rimane che mettere mano ai depositi bancari che avrebbero dovuto garantire l’agio una volta in pensione e ipotecare la propria casa (i mutui per le case rimangono scoperti), ecco come la realtà della mobilità verso il basso irrompe violentemente nello spazio domestico. Sebbene i profitti non arrivino a toccare gli strati più bassi della piramide lavorativa, le conseguenze materiali del rischio giocato e perso dagli investitori dell’élite invece raggiungono sempre le classi in basso, riversandosi su di esse con la forza di un’onda d’urto.
All’interno della sfera sociale, non rimane altro da depredare se non il pubblico settore. Negli Stati Uniti, dove oggi più che mai è necessaria una rete di assistenza inclusiva, i fondi pubblici sono stati consegnati alle élite in forma di tagli alle tasse, sussidi per le corporazioni, facilitazioni fiscali e prelievi autorizzati dalle casse statali. E il capitale non ha altro modo di attingere ai risparmi della classe lavoratrice se non attraverso la guerra. L’esorbitante budget militare è un sistema per ridistribuire i fondi a vantaggi dei più ricchi finanziando l’industria delle armi e dei servizi alla sicurezza (la privatizzazione dell’esercito).
In ultimo, il CAE intende rimarcare lo spostamento strutturale che si sta verificando nelle economie occidentali. Quando si assiste ad una modifica dell’economia tale per cui, al posto delle industrie, vengono a prevalere i servizi, è naturale che si venga a creare una massa di persone in esubero, che non trovano collocazione in questo nuovo modello economico. Se mancano le istituzioni in grado di riqualificare e reintegrare queste persone, è ovvio che il sottoproletariato, già caratterizzato per sua natura da uno stato di precarietà permanente, è destinato ad espandersi. I tagli all’educazione dimostrano chiaramente l’assenza di una volontà politica tesa a migliorare la situazione, e il fatto che molti dei settori produttivi oggi in espansione non necessitino di un gran numero di manodopera non fa che  a peggiorare le cose
Mentre il capitale globale scivola sempre più verso una profonda crisi strutturale, affannandosi tuttavia a mantenere qualche margine di profitto, diventare precari (nell’accezione negativa del termine) sta emergendo come il leit-motiv nell’immaginario comune. Oggi aleggia nell’aria un pesante vento di nostalgia per la stabilità del passato. Ammettiamo pure che sia possibile tornare agli anni Cinquanta, ma siamo davvero sicuri di volerlo? Negli U.S.A. il progresso sociale andava di pari passo con la crescita economica, ma a favore di chi? Le classi più marginali non hanno certo goduto di questo progressivo miglioramento, figlio del “compromesso di classe” con il capitale, e comunque, anche chi vi ha partecipato, non l’ha fatto certamente alle condizioni più favorevoli  E molti degli esclusi non godettero affatto dei benefici più accattivanti. Le strade straripavano di uomini “in giacca e cravatta” che  ogni giorno raggiungevano il loro posto di lavoro garantito sì a vita ma vuoto di soddisfazioni, un ufficio dove a ciascuno era richiesto di fare il suo dovere e non piantare grane. Davvero vogliamo far rivivere questo modello conformista di lavoro? Vogliamo rifarci a un modello di famiglia che oggi appartiene solo a una ridottissima minoranza? Vogliamo barattare la precarietà con quel profondo stato di alienazione e marginalizzazione che ha catalizzato le attuali lotte, culturali e sociali, a favore dell’emancipazione femminile, dei diritti LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) e di una moltitudine multicolore di minoranze? Potremmo invece riplasmare la precarietà per farne uno strumento al servizio delle persone e della riqualificazione della sfera sociale, per arrivare infine ad eliminarne tutta la valenza negativa che inficia la nostra vita oggi.

Dérive rivisitata

La Deriva (Dérive) può essere interpretata come un processo utopico. La sua pratica è caldamente raccomandata sia per la bellezza dell’esperienza in sé sia per i risultati che può portare. Colui che pratica la Deriva può affrancarsi da tutte quelle routine cui è soggetto a causa della struttura normativa e delle dinamiche proprie dell’ambiente urbano. Può contrastare la pervasività del razionale e lasciare che siano i desideri inconsci a guidare i suoi passi.  L’azione della Deriva dovrebbe essere improduttiva ed esperita senza porsi alcun obiettivo pratico, solo in questo modo essa diventa un’avventura. Chi la pratica, dovrebbe affrontare ambienti a lui estranei e mescolarsi a persone che vivono ai margini della sua quotidianità. Così facendo, sperimenta una dimensione di vita completamente svincolato dagli imperativi dello status quo. La Deriva implica una partecipazione attiva e impegnata nello spazio reale di prossimità. Niente a che vedere con il passeggiare, quando ci si limita ad osservare in modo freddo e distaccato la realtà, o si va semplicemente in giro a caccia di informazioni e notizie. La Deriva è invece la temporanea dimostrazione di cosa potrebbe voler dire essere-nel-mondo in forma emancipata, se l’apparato disciplinante dello spettacolo e le illusioni del virtuale non fossero onnipresenti nelle nostre vite.
Descritta così, la Deriva sembra talmente desiderabile, piacevole e anche facilmente accessibile, che non dobbiamo far altro che cominciare a praticarla. Tuttavia nel processo entra in gioco anche l’idea di precarietà, implicitamente sottesa sebbene di solito nessuno si soffermi a rilevarla. Chi pratica la Deriva, infatti, può avere la meravigliosa occasione di scoprire una cultura subalterna di cui ignorava perfino l’esistenza, ma potrebbe altrettanto facilmente finire in prigione o venire duramente pestato. Di sicuro, se diamo via al processo o lo osserviamo attraverso la prospettiva prismatica delle ingiuste relazioni tra maggioranza e minoranza (di ogni genere), l’incidenza della precarietà si intensifica. Che effetto farà, agli occhi di un agente incaricato di mantenere lo status quo, una persona impegnata nella pratica della Deriva? Se l’azione può in qualche modo rientrare tra le violazioni alle norme della strada, molto probabilmente ci si ritroverà in prigione. Di sicuro i Situazionisti non erano così ingenui da pensare che una siffatta condotta potesse avere sempre e soltanto aspetti positivi. Il racconto dei rischi fisici che hanno corso e del tempo passato in gattabuia ci fanno capire come loro stessi abbiano direttamente sperimentato tutti gli aspetti decisamente spiacevoli impliciti nella scelta di creare e vivere tempi e spazi liberati. Quando si parla della Deriva come processo utopico, il CAE non afferma certo che sia senza rischi per l’incolumità fisica e l’autonomia personale. Tuttavia riteniamo sia uno strumento utile se vogliamo trovare uno spazio di relazione intersoggettivo, che l’autorità ci nega, dal momento che la Deriva ci suggerisce che una certa situazione, o addirittura l’intera società, può essere ripensata in modo diverso da come oggi è. Per questo è un gesto utopico, a cui sempre si accompagna la precarietà.


Precarietà e pratiche culturali di resistenza

I Situazionisti non sono stati i primi attivisti culturali, né saranno gli ultimi, a considerare la precarietà una fedele compagna di viaggio. Chiunque abbia praticato in ambito culturale una qualche forma di resistenza nello spazio pubblico ha sviluppato una certa confidenza con questo binomio. (Tanto per essere chiari, diciamo subito che il CAE intende per “pubblico” tutto lo spazio che si sviluppa fuori dalle mura domestiche e non è specificatamente vincolato nell’accesso.) Spesso le autorità accettano di chiudere un occhio davanti a un’infrazione, dal momento che le leggi che regolano il comportamento nello spazio pubblico sono state scritte non tanto per impedire l’attività criminale quanto invece per ostacolare le azioni di resistenza. Per esempio, quando il CAE ha sostenuto gli studenti della NYU in una protesta pubblica contro il Museo di Storia Naturale della città di New York che esponeva una statua equestre di Teddy Roosevelt che guidava un nativo americano e un afro-americano (ovviamente entrambi a piedi) verso l’implicito orizzonte del tramonto, prontamente accorsero le guardie di sicurezza e subito dopo intervenne la polizia. La polizia minacciò di arrestare i manifestanti per blocco del traffico (a dispetto del fatto che in realtà si muovevano in continuazione). A chi ribatteva chiedendo conto delle dozzine di persone ferme sulla scalinata del museo e che, loro sì, con ogni evidenza ne bloccavano l’accesso, la polizia rispose che quelle persone potevano anche infrangere la legge ma nei fatti non stavano dando fastidio a nessuno.
 
Ecco perché il CAE non distingue, da un punto di vista operativo, un parco da un centro commerciale. La questione della sicurezza è la stessa in entrambi in luoghi, così come la domanda di ordine pubblico e la restrizione del diritto di parola. Purtroppo, quando l’azione politica di resistenza tocca il mondo della produzione culturale, bisogna mettere in conto una percentuale di rischio più alta. Esiste una gran varietà di leggi che vengono applicate a diversi livelli di intensità. Quando bisogna impedire un’azione che dà fastidio alle autorità, allora ci si appella alle leggi relative a disturbo e perturbamento della quiete pubblica, condotta intemperante, assemblea non autorizzata o intralcio di pubblico passaggio. Se bisogna allontanare dalla sfera pubblica qualcuno per un periodo di tempo più lungo, allora si fanno scattare accuse più pesanti, come per esempio incitamento alla rivolta, provocazione di una falsa emergenza pubblica o condotta criminale. Si tratta di leggi utili all’autorità dal momento che possono essere applicate in maniera completamente arbitraria. Chiunque può essere arrestato in qualunque momento, e si può giustificare ogni arresto come contenimento di un’azione criminale piuttosto che come repressione dell’opposizione e della libera espressione di una minoranza.
Anche nel caso i manifestanti godano della protezione istituzionale garantita da un ente patrocinatore a tutti gli effetti autorizzato e che dovrebbe evitare loro problemi di tipo legale,  ci sono comunque sempre altre agenzie disciplinatorie pronte a intervenire. In questo caso, tutti quelli che vogliono mantenere lo status quo - dai politici ai legislatori, dai gruppi confessionali ai lavoratori sociali – possono farsi carico di un’operazione disciplinante di regolamentazione. In casi di questo genere, gli attivisti culturali non hanno da temere denuncie e prigione, ma potrebbero incorrere in reazioni ben più fastidiose o pagarla anche più cara. La gestione del diritto di espressione è un fenomeno trasversale che permea tutti gli aspetti della vita quotidiana. Con il progressivo aggravarsi della crisi provocata dal crollo strutturale del capitalismo globale, crescerà di pari passo anche la repressione a danno di chi esprime dissenso. In queste condizioni, la familiarità che il lavoratore culturale intrattiene con la precarietà è destinata a rafforzarsi.
Gli attivisti culturali operano sempre a braccetto con la precarietà. Da una parte, il lavoro culturale creativo di chi opera in questo genere di produzione non è di solito ricompensato profumatamente; però la povertà economica è spesso percepita come il naturale contraltare di una vita culturalmente ricca, diversa e più felice. D’altra parte, se aumenta la repressione delle iniziative di attivismo culturale, la precarietà si somma alle difficoltà economiche finendo per incidere in modo sempre più pesante sulla vita sociale di chi produce controcultura. Non abbiamo altra scelta che accettarla come un’amica, cercando di capire in che modo potremmo meglio sfruttarla per le nostre battaglie contro l’oppressione e l’ingiustizia sociale. A titolo di testimonianza personale, ricordiamo che nel corso degli anni il CAE si è scontrato quasi con ogni agenzia disciplinatoria possibile immaginabile, eppure ancora non abbiamo rinunciato a considerare la precarietà nostra compagna di lotta. Le tante esperienze belle e arricchenti superano di gran lunga i momenti più brutti.  


Precarietà ecologica

Forse i lavoratori culturali vivono oggi decisamente più che in passato a stretto contatto con la precarietà. La vita degli uomini e di molte altre specie è accomunata dalla medesima condizione di precarietà ecologica, provocata dalla deliberata bancarotta etica del neoliberismo. La scelta di improntare tutte le attività economiche sulla base del mero guadagno ha messo a rischio l’ambiente come mai prima d’ora. Non soltanto il capitale cerca di evitare qualsiasi relazione con le questioni inerenti alla riproduzione del sociale, salvo assicurarsi che non si esaurisca mai il bacino della forza-lavoro, ma non vuole avere niente a che fare neppure con la salvaguardia della vita in nessuna forma. La biosfera viene intesa solo e soltanto come una risorsa da utilizzare fino ad esaurimento.
Per amore di onestà, dobbiamo ammettere che i primi capitalisti non potevano certo prevedere che l’attuale economia di scala avrebbe cambiato il modo di percepire la Terra, trasformando una riserva apparentemente inesauribile di risorse naturali in un serbatoio di cui ben presto vedremo il fondo. Ma oggi che tale cambiamento è ormai assodato, perché i capitalisti non desistono dalla strada intrapresa, a tutti gli effetti ecocida? Non lo fanno perché ritengono che oltre la sfera individuale non esista altro che il proprio tornaconto personale. Qualsiasi cosa (inclusi gli esseri umani) esiste solo per poter essere utilizzata ai fini dell’ottenimento di potere, benessere e prestigio personale. Fino a quando gli interessi egoistici del singolo individuo non vengono danneggiati in questo processo, allora il processo è buono. Ogni morte che tocchi altrui e/o ogni devastazione causata dalle pratiche economiche non è altro che un sacrificio necessario se si vuole la gloria immediata del guadagno economico. Dal momento che i fautori del neoliberismo concepiscono l’interesse del singolo come qualcosa di finito e la morte di un individuo rappresenta per loro la fine dell’attività economica, ne consegue che oltre questa fine non si sentono in alcun modo impegnati con il mondo materiale. La futura estinzione degli esseri umani e delle altre specie non rientra nel loro business plan. L’idea che il tempo sia un orizzonte infinito non gli appartiene, né si sentono parte della biosfera come insieme complesso. Oggi stanno commettendo a carico dell’intera ecosfera il più grave crimine della loro bicentenaria storia. Da una prospettiva ecologica, i neoliberisti – con la loro convinzione che il peso dei singoli egoismi sia maggiore di quello dell’universo – rappresentano un vero e proprio culto di morte.
Il predominio di questa ideologia di perverso individualismo, dove si crede che le peggiori qualità umane possano trasformare il mondo in un posto migliore per tutti, giustifica una dinamica ecologica che oggi danneggia tutti a causa della distruzione dell’ambiente. Principali responsabili ne sono gli inquinanti non biodegradabili e impossibili da bonificare. Il più virulento attacco all’ecosistema viene da qui. (Peccheremmo di negligenza se qui non ricordassimo che il secondo posto in questa gara alla devastazione ambientale se lo aggiudicano l’industria del mattone e quella estrattiva). Secondo la prospettiva neoliberista il costo degli inquinati andrebbe “esternalizzato” (cioè pagato da altri e non dalla propria corporazione, il che di solito significa dalla società nel suo insieme). Questo obiettivo viene raggiunto quasi sempre, tanto che poi porre rimedio all’inquinamento ambientale oltrepassa di gran lunga la capacità economica dei mercati  mondiali. Che si parli di cambiamento climatico, calo della biodiversità (per esempio, estinzioni di massa), peggioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, o di emergenze sanitarie provocate da agenti inquinanti presenti nell’ambiente, il prezzo da pagare per riparare ai danni che la Terra non è in grado di ammortizzare è incalcolabile.
Nonostante in tutto il mondo il neoliberalismo sia riuscito a inquinare senza soffrire alcuna conseguenza legale, non cessa di adoprarsi senza requie perché si alleggeriscano ancor di più le leggi di protezione ambientale. Di norma, il neoliberismo non ama che le proprie attività siano regolamentate, mentre trova ben fatto che tutto il resto lo sia, specie se si tratta di forze del mercato come i sindacati, aziende che potrebbero diventare potenziali concorrenti o attivisti culturali che si pongono all’opposizione. Ne consegue che compito del governo è approvare leggi che proteggono la proprietà e mantengono “l’ordine pubblico”, nonché farle applicare alla lettera.
Quanti hanno a cuore l’integrità ambientale hanno vinto alcune battaglie contro il movimento per la deregolamentazione, che pure poteva contare su ingenti poteri economici e una classe politica favorevole (e corrotta). In questo nostro articolo ci occuperemo in particolare della protezione delle specie e degli habitat a rischio in così tanti paesi. Negli Stati Uniti d’America, nel 1973 il presidente Nixon ratificò la trasformazione dell’Endangered Species Act in legge. Naturalmente era stato costretto a questo passo dagli ambientalisti e da una variegata coalizione di cittadini preoccupati, ma anche da alcuni inaspettati alleati dell’ala conservatrice spinti dal riaccendersi della paura della sovrappopolazione e delle sue possibili conseguenze. Il capitolo di legge in questione ha riconosciuto stato legale alle specie prossime all’estinzione, uno status che ha permesso agli avvocati del movimento ambientalista di costringere a un passo indietro quanti erano già bell’e pronti a uccidere qualunque essere vivente si trovasse sulla via del profitto.  

 
Nuove Alleanze

Avendo a che fare con specie che sono contemporaneamente a rischio e protette, potemmo trovarci per le mani un terreno d’azione dove la forza della precarietà combinata con il potere della legge può lavorare a favore di un ambiente più sano e fiorente. Il CAE propone di mettere insieme la condizione di precarietà vissuta dalle piante a rischio di estinzione con  quella degli spazi di socialità e di natura minacciati da più fronti così da rafforzare e proteggere entrambi. In molti paesi le specie vegetali a rischio godono di una speciale protezione legale. O, se non altro, suscitano la simpatia della gente e possono essere utilizzati dai protezionisti come deterrente morale. Queste piante, anche se deboli come specie, hanno di per sé un grande forza vitale. Se si riuscisse a convogliare questa loro forza individuale sugli spazi umani e non umani minacciati dalle varie entità del capitalismo che, per ottenere profitto e/o di potere, si riappropriano di territori che la gente non riesce più a difendere, allora forse si potrebbe dare vita a una nuova simbiosi socio-politica tra piante e persone. Le piante crescerebbero di numero man mano che la gente si adoperasse a coltivarle a scopo di autodifesa, attenuando il fenomeno del declino che coinvolge le specie vegetali, mentre a loro volta gli spazi potrebbero sfruttare la protezione legale accordata alle piante per opporsi con più forza ai violenti, aggressivi tentativi di appropriazione.  Questo progetto secondo noi potrebbe essere portato avanti a favore di tutti quegli spazi sui quali pende la minaccia di un irragionevole sviluppo: community gardens, spazi in condivisione, aree rurali a rischio edificazione, luoghi occupati abusivamente in generale, e tutti gli spazi minacciati dall’industria estrattiva, inclusi i territori agricoli, tutti i luoghi incolti e selvatici, o perfino le falde acquifere suburbane.
Basta guardare cosa è successo negli U.S.A. negli ultimi quarant’anni per capire che la scelta di appellarsi all’ESA (Endangered Species Act/Legge a tutela delle specie a rischio) ha prodotto alcuni  significativi risultati. Nel 1990, la Strix occidentalis caurina (un allocco caratteristico del Nord America) fu lo strumento che permise di porre in salvo le antiche foreste, suo habitat naturale, che rischiavano l’estinzione per l’eccessivo prelievo ligneo. Milioni di acri nel nord ovest del paese sono stati preservati, sebbene nei vent’anni a seguire lo scontro tra protezionisti e l’industria del legname non sia mai cessato. L’area interessata è stata in gran parte messa in salvo, ma l’industria del legname ha continuato a reclamare i suoi diritti su di essa in tribunale, con azioni di pressione politica e anche intervenendo nel dibattito ecologico (sostenendo che l’estinzione della Strix o.c. era dovuta non tanto alla scomparsa del suo habitat naturale ma all’intrusione massiccia della concorrente Strix varia, (l’Alocco barrato).

Nel 2006 divampò lo scontro tra protezionisti e industria estrattiva a causa dei piani di sviluppo delle Grandi Pianure in Nebraska e South Dakota. Il furetto dai piedi neri (Mustela nigripes), che si credeva ormai estinto quando invece fu di nuovo avvistato nel 1982, diventò il simbolo della biodiversità nelle Grandi Pianure minacciata non solo dalla massiccia opera di estrazione ma anche da una gestione pubblica corrotta. L’immissione sul territorio di nuovi esemplari di furetto permise di estendere l’area protetta, mettendola al riparo da speculatori e cacciatori.


Eubranchipus vernalis
, poi, è la specie utilizzata per impedire la proliferazione urbana a Riverside, California. Sebbene non siano animali accattivanti come la piccola civetta maculata o il furetto dai piedi neri, questi piccoli crostacei d’acqua dolce si trovavano a vivere in un habitat gravemente compromesso dall’industria della costruzione che procedeva a ingenti bonifiche delle loro aree di riproduzione primaverile. Alla fine vinsero i costruttori, ma alcuni degli habitat dell’Eubranchipus vernalis furono comunque preservati e non eliminati come previsto dal piano originale. Dalla verifica sul campo possiamo dedurre che è questo il genere di risultato che ha le maggiori probabilità di verificarsi. I grandi progetti di sviluppo possono essere rallentati o limitati, ma raramente si riesce a fermarli del tutto.

Prendiamo uno dei primi classici casi verificatisi negli U.S.A., quello che ha contrapposto il Percina tanasi e il piano di sviluppo della diga Tellico in Tennessee. Il biologo David Etnier aveva scoperto l’esistenza di questa rara specie di persico nel 1973, e questo aveva permesso agli ambientalisti di condurre un’azione legale contro la TVA (Tennessee Valley Authority)  sulla base del fatto che la diga avrebbe distrutto il già ristretto habitat che permetteva l’esistenza di una specie a rischio. Questa azione, che proseguiva quella già avviata sulla base del National Environmental Policy Act, fu portata avanti dagli attivisti che invocarono l’ESA. La Corte Suprema accolse finalmente il caso nel 1978 e si espresse a favore delle ragioni degli ambientalisti. I sostenitori della Tellico, allora, cominciarono a darsi da fare a Washington D.C. per ottenere dal Congresso una dispensa che ponesse la diga al di fuori del raggio di azione delle leggi di protezione ambientale. Attraverso un’operazione di lobbying, ottennero un’esenzione in una clausola contenuta nel progetto di legge sull’acqua e l’energia. Poi, furono proposti alcuni emendamenti che limitassero il campo d’azione dell’ESA. La diga fu completata nel 1979. In sostanza, dobbiamo prendere atto che questo modello di lotta è imperfetto, però dà in mano agli attivisti una carta da giocare al tavolo della contrattazione. Nella maggioranza dei casi, le voci del mondo ambientalista sono riuscite soltanto a ostacolare e rallentare il processo di distruzione.  La TVA ancora oggi si dichiara orgogliosa del fatto che mai nessuna azione ambientalista è riuscita a far recedere uno dei suoi progetti. Tuttavia, i gruppi di pressione che cercano di dar voce agli interessi delle specie a rischio, o dei loro habitat, hanno costretto questi signori a negoziati che hanno certamente influito sui loro piani di espansione. Nel caso del Percina tanasi, mentre procedeva l’erosione del loro habitat, ci si adoperò anche per traslocare il maggior numero possibile di esemplari in acque che avessero caratteristiche simili a quelle loro abituali e che potessero dunque ospitarli. Nel 1984 il Percina t. fu ricatalogato  da specie a rischio a specie in via di estinzione.


Se gli animali a rischio di estinzione riescono a motivare l’azione degli ambientalisti in modo così forte, perché allora non si possono spostare tali specie in ambienti a loro compatibili che siano anch’essi a rischio di estinzione? Prima di tutto perché gli animali si muovono. Non stanno dove decidi di metterli e, una volta liberati in un nuovo territorio, potrebbe essere poi difficile rintracciarli, specie se parliamo dell’introduzione di un piccolo numero di esemplari. Se parliamo di un’area rurale, la protezione legale scatta solo e soltanto se siamo in grado di dimostrare che la specie a rischio è minacciata nell’immediato da una ben specifica attività compiuta da un soggetto ben individuato. In poche parole, deve essere vicino al collasso.  Come il CAE ha dimostrato negli esempi qui sopra, raramente scatta una vera e propria moratoria, però le attività inquinanti o distruttive possono essere allontanate da alcuni luoghi circoscritti. Soltanto il mondo vegetale, per sua natura sedentario, ci permette di tentare questa via. D’altra parte, in riferimento alle aree urbane, non abbiamo a disposizione altra possibilità se non l’utilizzo delle piante, dal momento che le città non offrono un ambiente ospitale per gli animali. Anche gli alberi potrebbero fare al caso nostro.
Immaginiamoci il peggiore degli scenari possibili, immaginiamo cioè che in una data situazione i soldi delle industrie e la volontà politica costituiscano una presenza schiacciante, oppure che la legislazione sia stata palesemente scritta per favorire gli interessi dell’industria. Ne abbiamo visti alcuni casi appena sopra. Per quanto riguarda l’ultimo aspetto, se guardiamo per esempio all’Italia, la legislazione di protezione ambientale opera un distinguo tra piante coltivate e selvatiche quando si tratta di specie a rischio. Per quanto rare possano essere, le piante coltivate non godono di alcuna protezione legale. Di conseguenza, il progetto del CAE sarebbe difficilmente attuabile. Ma proprio per questo l’Italia rappresenta una perfetta occasione di testarlo. La prima sfida è infatti quella di capire cosa significa coltivato rispetto a selvatico, specie se parliamo di qualcosa che cresce in un spazio incolto. Se un’orchidea selvatica che cresce in una serra può facilmente essere classificata come una pianta coltivata, diventa difficile definire la stessa pianta se cresce su un pezzo di terra di nessuno.

Ammettiamo che questo nostro test fallisca, costringendoci a una seconda linea di difesa: potremmo trasformare questa azione in una fruttuosa campagna di informazione? Sebbene chi cerca di realizzare profitti non si vergogni affatto del suo operato né soffra di sensi di colpa, è però vero che di solito ha un’immagine pubblica che desidera preservare. Scegliendo le specie più adatte allo scopo, si riuscirà a catturare l’immaginazione del pubblico e indirizzarla a sostegno del protezionismo. Aumentare il numero delle persone che si lascia coinvolgere dal progetto è sempre una necessità se si vuole costringere al tavolo della contrattazione il promotore di un’impresa. Naturalmente, questo significa scegliere con grande cura le piante che andranno trapiantate in un ambiente a rischio di cancellazione. Scegliere una specie sulla base del suo valore ambientale non è una buona tattica. Molte erbe e molti alberi importantissimi per la sopravvivenza dell’ecosistema hanno bisogno di essere salvaguardati, ma se vogliamo costruire un nuovo patto dovremo ricorrere a un criterio più tradizionale, quello del valore estetico. Si tratta, e ce ne dispiace, di un lato poco edificante del processo ma di una chiarezza lampante: se una pianta non riesce a reggere il paragone con le nobili creature che stanno in cima alla catena alimentare — maestosi predatori, o teneri mammiferi — farà la fine di quella vasta, non rappresentata, maggioranza di esseri viventi che vanno incontro all’estinzione a causa di qualche caratteristica repulsiva o di un volto che lascia indifferenti. Per questo nostro lavoro solo una strada è praticabile: bei fiori selvatici, grandi distese di fiori selvatici. L’immagine di una fila di bulldozer che avanza schiacciando sotto di sé una distesa di fiori, e non semplici fiori qualunque ma esemplari di piante a rischio di estinzione,  può avere un effetto drammatico capace di smuovere gli animi, per la nostra parte, e rappresentare una grossa pietra di inciampo nel campo delle relazioni pubbliche, per i nostri interlocutori.


Il CAE deve purtroppo ammettere che probabilmente questa tattica non può da sola produrre un impatto su larga scala. I suoi risultati migliori li dà se dispiegata all’interno di un sistema composito di resistenza. Quando è già attiva una mobilitazione pubblica a favore della salvaguardia di un ambiente selvaggio o di un parco naturale, o contro l’avvelenamento di un habitat a causa degli scarichi tossici, allora questa tattica può dare un contributo estremamente utile alla causa.  

La nuova alleanza tra gli uomini e le piante che condividono la stessa condizione di precarietà sembra al CAE un sistema funzionale di condividere interessi per sviluppare forza politica; rimangono tuttavia diverse questioni di ordine logistico. In fin dei conti, si tratta di azioni per le quali sono necessarie molte piante e questo significa che bisogna attivare ancora un altro patto di alleanza, quello tra uomini. Una delle divisioni che tradizionalmente si sono dimostrate controproducenti per il movimento ecologista è la separazione tra chi si preoccupa di preservare la campagna e chi lotta per il verde in città. Anche se corre grande empatia tra i due gruppi, metterli insieme è, all’atto pratico, un affare difficile. Non che manchi il desiderio di farlo, mancano le infrastrutture, perciò le persone sono costrette ad agire localmente nello spazio reale a loro disposizione. Per quanto lo spazio virtuale aiuti a organizzare i gruppi e a trovare i finanziamenti, alla fine serve la condivisione di uno spazio reale per risolvere i problemi dello spazio reale. Perché si realizzi l’alleanza pianta-uomo, devono prima riuscire ad allearsi gli ambientalisti che si occupano di campagna e quelli di città, e anche tutti i cittadini sensibili a questi temi.  Il nuovo food movement ha dimostrato che l’agricoltura su piccola scala e gli abitanti delle città possono allearsi per dare vita a un nuovo tipo di mercato basato sulla vendita diretta dei prodotti locali. Perché non adottare una struttura siffatta per generare nuove modalità di azione politica ambientale, in cui gli attivisti che operano in zone rurali gestirebbero la produzione delle piante mentre quelli di città si occuperebbero di raccogliere i fondi e organizzare le azioni di distribuzione e le campagne di allerta media quando necessario?



In Italia

Nell’ottobre 2011 il CAE si è recato a Torino, in Italia, per condurre un workshop sulle “nuove alleanze” in collaborazione con il PAV / Parco Arte Vivente diretto da Piero Gilardi.  Come dice il suo nome, si tratta di un’istituzione che svolge un’attività culturale che implica un costante impegno in senso ecologista e nell’ottica della resilienza. Con la sua programmazione, l’architettura e il luogo stesso su cui è sorta – una zona industriale dismessa – il PAV segnala visivamente un cambiamento nel modo in cui l’essere umano si relaziona con l’ambiente e si staglia in netto contrasto con gli edifici moderni e l’impianto urbano che lo circondano. Non c’è bisogno di dire che il CAE non avrebbe potuto trovare un partner migliore con cui dare avvio a questo progetto.
Il workshop era strutturato in quattro sessioni che servivano a predisporre il terreno all’azione. Al CAE spettava il compito di delineare il progetto e le sue variabili rispetto a cosa si intendeva per nuove alleanze. Sarebbe poi stata la volta di un agronomo esperto in legislazione ambientale (Daniele Fazio) che avrebbe presentato le leggi dedicate alle specie a rischio a livello nazionale, regionale e locale. Poi un botanico e giardiniere (Filippo Alossa) ci avrebbe introdotto al mondo delle piante a rischio di estinzione, mostrandoci come coltivarle. Il workshop avrebbe infine dovuto concludersi con una serie di esplorazioni al fine di individuare i luoghi più adatti alla piantumazione di queste piante. 
Arrivati a Torino, Orietta Brombin, responsabile delle Attività educative e formative del PAV e curatrice del workshop, aveva riunito un interessante gruppo di partecipanti, tra cui l’esperto in legislazione e l’agronomo di cui tanto avevamo bisogno. Prima del nostro arrivo questo gruppo aveva già esplorato alcuni possibili luoghi di intervento, perciò a noi non rimaneva che approfondire le altre sezioni del workshop. L’analisi della legislazione italiana ci ha dato una forte delusione dal momento che, in materia di specie a rischio, distingue tra piante coltivate e piante selvatiche e non protegge quelle coltivate indipendentemente da quanto siano rare. Questo non mette certo a rischio un’eventuale campagna d’informazione, ma presenta comunque alcune zone grigie relativamente a come si potrebbe accertare che una pianta è coltivata se la vediamo crescere in un campo incolto. D’altra parte però, coltivare le piante e acquisire i mezzi necessari a farne crescere in gran quantità sembrava un’operazione attuabile senza difficoltà. Con altrettanto agio siamo riusciti a scegliere un fiore (Catananche caerulea), sebbene la scelta sia stata determinata soprattutto dalla facile reperibilità sul mercato dei suoi semi. Naturalmente, non tutti sono autorizzati a raccogliere i semi di piante selvatiche a rischio. Per nostra fortuna però molti semi di piante a rischio sono disponibili sul mercato. Infine, abbiamo capito che il progetto andava esteso, accogliendo le raccomandazioni di Alossa in merito al rispetto del ciclo naturale di crescita in un ambiente naturale ed evitando invece le condizioni artificiali di una crescita in serra, perché le piante cresciute in serra sarebbero state troppo delicate per resistere a condizioni ambientali naturali. Alossa ci ha suggerito di cominciare a seminare le piante in tarda primavera e di trapiantarle in loco alla fine dell’estate.
Mentre questo processo si svolge passo dopo passo in Italia, noi speriamo di lanciare un’azione parallela nello Stato di New York al fine di contribuire alla battaglia in atto contro la fratturazione idraulica causata dall’industria estrattiva. In questo momento, il CAE immagina che l’azione potrebbe avere una maggiore ricaduta, specie in termini mediatici, negli Stati Uniti.



Inversione / Capovolgimento

Nella Dialettica dell’Illuminismo, Horkheimer e Adorno lamentano la regressione politica e culturale della ragione in un semplice meccanismo che favorisce una serie di tendenze autoritarie e, viceversa, il fallimento dell’Illuminismo nel portare a pieno compimento i suoi obiettivi, cioè il portato delle idee di libertà, uguaglianza e progresso. Mano a mano che la ragione perde terreno, questi ideali cominciano a cambiare segno e alla fine rischiano di trasformarsi nel proprio opposto. L’Illuminismo aveva promesso la liberazione dalla miseria eppure, indipendentemente da quanto si produce, la povertà è ancora una condizione reale. Scienza e tecnologia, che sembravano portare a una pace e a un progresso infiniti, hanno prodotto invece quelle capacità distruttive in grado di mettere a rischio l’esistenza stessa della vita umana; e la razionalità, che avrebbe dovuto organizzare la vita umana in modo che i benefici fossero equamente divisi tra tutti, si è trasformata in uno strumento capace di ideare campi della morte incredibilmente efficienti per lo sterminio dell’Altro. Anche la relazione con la Natura si è pervertita dal momento che la si è assimilata all’Altro per eccellenza e come tale deve essere sfruttata fino in fondo ed eliminata. Le relazioni cooperative o simbiotiche con la Terra sono state eliminate a favore delle relazioni di dominio.
Questa idea riecheggia in quella che Ivan Illych chiama la diseconomia specifica. Secondo Illych le istituzioni all’interno del mondo capitalistico tendono nel tempo a invertire la propria direzione di marcia, in quanto continuano ad assorbire la corruzione insita nel capitalismo. Per esempio, l’idea di educazione pubblica ha una fortissima capacità di attrazione: garantire scuole e università gratuite quale segno tangibile di questo ideale sembra un incredibile beneficio per la democrazia e l’industria, dal momento che queste istituzioni contribuiscono a educare le persone a vivere in maniera più critica, riflessiva e creativa. In realtà esse hanno finito per diventare il proprio esatto opposto. Sono infatti diventate spazi in cui l’ideologia dominante replica se stessa, e dove la creatività è sottovalutata se non addirittura scoraggiata. Dal momento che gli studenti vengono preparati a diventare burocrati e tecnocrati al servizio dell’industria, li si educa a sopportare lunghe ore di puro tedio da trascorrere immobili al proprio posto e con gli occhi fissi a un computer per memorizzare i simboli e la lingua del libero mercato. Invece di nutrire la loro intelligenza, si pensa a rendere gli studenti sempre più incapaci di capire, finché tutti i più diversi sistemi di conoscenza vengono ridotti alla mera categoria dell’impresa. Forse la più recente incarnazione di questa idea è contenuta nel principio del “capovolgimento immanente” enunciato da Jean Baudrillard. La caratteristica centrale di questa interpretazione è lo slittamento dal dominio dell’ordine materiale delle cose al regno della virtualità. Potere, piacere e seduzione non appartengono più al piano del mondo materiale. Quella casa degli specchi che è il mondo virtuale, dove il significato non è più strettamente legato a un referente, diventa il centro attorno cui gira la vita stessa. In questa tecnosfera, il più alto grado di illusione produce il più alto grado di valore e si aggiudica il massimo encomio. Sebbene tutte queste nozioni tendano ad assumere una traiettoria negativa, allo stesso tempo indicano che esiste la possibilità di innescare un cambiamento enorme. Data per certa la possibilità di un cambiamento radicale e considerato il fatto che noi adesso stiamo ormai raschiando il fondo del barile del libero mercato, perché mai il prossimo capovolgimento non potrebbe essere positivo? Si potrebbe sostituire la triade uomo/fucile/carro armato con la meno gerarchica uomo/mattone /barricata Secondo il CAE non c’è ragione per cui non si possa, impegnandosi a fondo nella lotta, tornare ad essere creature dotate di intelligenza e creatività, e insieme invertire il processo di precarietà in una forza positiva e costruttiva opposta alla generale condizione odierna.


CAE/Critical Art Ensemble:
Steve Kurtz, Lucia Sommer, Steven Barnes

Partecipanti al workshop:
Orietta Brombin, Emanuela Romano, Valentina Salati, Francesca Doro, Maria Chiara Monaldi, Andrea Piras, Pedro Caetano, Vittoria Iozzo, Filippo Alossa, Rossana Raballo, Raffaella Gallo, Claudia Botta, Sylvia Mazzoccoli, Iacopo Seri, Nunzio Cirulli, Stefano Lattanzio, Setsuko Kibe, Daniele Fazio, Giovanna Bonito, Elisabetta Palaia, Andrea De Taddeo, Piero Gilardi e Giuliana Ponti.
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Didascalie
20 Parco Arte Vivente.
39 Partecipanti al workshop.
51 Valutazione del potenziale estetico di diverse piante a rischio di estinzione.
68 L’esperto di legislazione ambientale Daniele Fazio illustra le leggi di protezione ambientale nazionali e provinciali.
87 e 81 I partecipanti al workshop discutono quali specie vegetali tra quelle a rischio debba essere impiegata nell’azione.
97 Il botanico e vivaista Filippo Alossa illustra le caratteristiche di alcune piante a rischio al fine di scegliere quelle più adatte al progetto.
157 I partecipanti al workshop imparano come si prepara un suolo per la semina.
171 Preparare i semi per la germinazione.
285-6 I partecipanti al workshop imparano come si trapiantano esemplari specie a rischio.

Reati veniali (1992): un membro del CAE in flagranza di reato: si dà il caso che un adulto sorpreso a giocare come un bambino in uno spazio pubblico rischi l’arresto per disturbo della quiete pubblica.
Reati gravi (2004): la casa di un membro del CAE viene perquisita dallo FBI e dell’ATF* . L’indagato è sospettato di bioterrorismo, ma i capi d’accusa a lui imputati sono frode postale ed elettronica. Quattro anni più tardi tutte le accuse sono state archiviate.

* Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives, agenzia governativa statunitense che interviene nei casi di violazione che coinvolgono traffico illegale e altri reati collegati all’abuso di alcool, tabacco, armi da fuoco ed esplosivi.

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